RCE ha supportato il reportage di Riccardo Franchellucci in Antartide, sulle tracce dei naufraghi dell’Endurance.

 

Un’avventura d’altri tempi al seguito di un gruppo di esploratori che fanno parte del gota dell’alpinismo internazionale in uno dei luoghi più remoti e difficili da raggiungere del pianeta: l’isola antartica della Georgia del Sud.

Ed è stato lì che si è trovato ad affrontare la tormenta più grande mai registrata sulla Terra.

Diario di viaggio

La partenza è fissata per il 29 settembre da Madrid e 4 scali: Lima, Santiago del Cile, Punta Arenas e le Falkland.
Arrivati a Mont Plesant, piccolo aeroporto militare delle Falkland, il primo imprevisto: il bagaglio con tutto il materiale di sicurezza, corde, chiodi da ghiaccio ed imbraghi è smarrito, non possiamo salpare senza ed il prossimo volo per consegnare il bagaglio arriverà tra una settimana. Approfitto di questa attesa per conoscere i miei compagni: Juan Diego Amador, Ignacio De Zuloaga, Domigo Expòsito, Juan Manuel Sotillos e Rafael Vazquez.
A bagaglio arrivato ci imbarchiamo sull’ Yopoke II, una barca a vela di 18 metri che solcherà uno dei tratti oceanici più pericolosi ed insidiosi del pianeta fino a raggiungere King Haakon Bay da dove inizierà la nostra avventura. La navigazione dura 6 giorni, tra onde e mal di mare, il mare grosso ci impedisce di entrare a ovest dell’isola e dobbiamo circumnavigarla fino a Possesion Bay dove finalmente sbarchiamo. Il tempo non è dei migliori e un altro imprevisto è alle porte: dopo due ore Rafael, il medico, decide di abbandonare e fare retro front verso la barca.
Sono le 5,30 del terzo giorno quando mi sveglia l’ennesima raffica di vento.
Nemmeno il tempo di aprire il sacco a pelo che arriva un altra raffica questa volta più forte delle altre.
La tenda non regge, si piega su sé stessa e il telo umido ci si stampa in faccia.
Siamo senza tenda. Quando scende la notte decidiamo di scavare un buco nella neve dove avremmo passato la notte io e Ignacio pronti ad accogliere gli altri tre nel caso anche la loro tenda avesse ceduto.
Ci ritroviamo bloccati nella tormenta senza poterci muovere per due interminabili giorni. In Georgia del Sud non esistono squadre di soccorso, non esiste elisoccorso, si entra in questo inferno di ghiaccio con le proprie gambe e si deve uscire con le proprie gambe. Martedì il vento improvvisamente sembra smettere, attendiamo un’ora per vedere se la tregua regge, facciamo in fretta i nostri zaini e decidiamo di partire.
Dobbiamo attraversare tutto il plateau del ghiacciaio e raggiungere un punto riparato a circa 2km di distanza. La tregua dura pochissimo e dopo 500 metri ci troviamo in balia della tempesta senza nessun riparo.
Io 75 kg con uno zaino da venti vengo sollevato da terra e sbalzato a 2 metri di distanza, le slitte che trainiamo con 20 kg di materiale si alzano in area come aquiloni e ci trascinano verso il fondo del ghiacciaio.
Non riusciamo ad avanzare, siamo tutti allo stremo delle forze in una impari lotta contro la tormenta.
Nessun si dà per vinto e con uno sforzo sovrumano riusciamo a raggiungere riparo tra due piccoli speroni di roccia.
La barca ci avvisa via satellitare che domani dovremmo avere una tregua e che poi la tormenta tornerà più forte di prima.
L’indomani mattina partiamo all’alba, siamo immersi in quello che gli alpinisti chiamano White out, l’effetto è la completa perdita di visibilità e di orientamento a causa di un biancore uniforme con totale assenza di ombre per cui non si coglie la differenza tra terreno innevato e cielo. In queste condizioni proibitive camminiamo a ritmo forzato e senza sosta fino alle 7 di sera.
Quando cala il sole ci troviamo su una piccola vetta, la Baia e sotto di noi ma l’unico modo per raggiungerla e calarsi sulla parete innevata di notte e senza nessuna visibilità.
Iniziamo le manovre con la corda nella totale oscurità, sotto di noi l’ignoto.
Siamo sfiniti e bagnati fradici dalla pioggia mista a neve quando finalmente iniziamo a sentire il richiamo di pinguini ed elefanti marini.
Arrivati alla Baia un’altra cattiva notizia, il mare è troppo mosso e il fondale troppo basso, il gommone non può navigare dovremo passare un’altra notte sull’isola.
Solo alle 5 del mattino riusciamo in un disperato tentativo, tra onde di due metri, a tornare alla nostra barca, siamo salvi.
La nostra tranquillità dura solo qualche giorno, nel viaggio di ritorno dopo 8 giorni in mare aperto veniamo sopresi da una tremenda burrasca, venti di 60 nodi e onde di 7 metri si abbattono sulla piccola imbarcazione, l’albero maestro sbatte sull’acqua e più volte rischiamo di affondare.
Fortunatamente riusciamo indenni a raggiungere il porto di Stanley dove finalmente possiamo abbracciarci e festeggiare.

Nel 1916, l’esploratore britannico Ernest Shackleton partì per l’Antartide a bordo della nave Endurance.
Dopo essersi arenato tra i ghiacci, navigò su una scialuppa di salvataggio per 15 giorni fino alla Georgia del Sud, in cerca di aiuto.
Sbarcato sull’isola insieme a Tom Crean e Frank Worsley, in 36 ore riuscì ad attraversare 30 miglia di montagne e ghiacciai inesplorati, raggiungendo infine la Stromness Whaling Station; fu la prima traversata dell’isola in assoluto.
Cento anni dopo, la spedizione ne ripercorre la rotta.